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I non-luoghi della repressione

INTRODUZIONE

Diffusione capillare sul territorio, crescita esponenziale del controllo sociale “a misura d’uomo”: questo e’ il meccanismo con cui le istituzioni totali continuano, oggi, ad esercitare il loro potere invasivo che non ammette repliche.
Le riforme e le leggi che si sono susseguite negli anni, per tentare di rendere più umane strutture detentive come il carcere e il manicomio, non hanno, infatti, minimamente scalfito il loro carattere repressivo e totalitario. Sia la legge 180 (legge Basaglia ) relativa alla chiusura dei manicomi, che la legge Gozzini dell’86 sul carcere, solo in un primo momento sono sembrate capaci di apportare mutamenti significativi in senso democratico e di estensione dei diritti. In realtà entrambe hanno aperto la strada alla creazione di luoghi alternativi in cui la coercizione e il sopruso si mascherano dietro termini più rassicuranti come trattamenti e terapie. La creazione di servizi territoriali decisa dalla 180 (centri di salute mentale, case famiglie ecc..) e i vari regimi di detenzione attenuata come la semilibertà e l’affidamento ai servizi sociali, non sono in realtà una vera e propria alternativa all’istituzione totale (carcere e manicomi). Al contrario tali innovazioni non servono ad altro che a potenziare e ad allargare, al di là delle mura di questi ghetti, le funzioni punitive e detentive dell’istituzione stessa. Il principio di esclusione arriva ovunque, in ogni ambito della quotidianità ed è affidato a strutture sociali il cui compito si riduce sempre più al controllo e al contenimento.
Ma la continuità tra psichiatria e carcere non si esaurisce qui: entrambe fondano i loro giudizi e le loro decisioni sull’imperativo sorvegliare-punire-premiare e sulla più completa arbitrarietà con cui si stabilisce chi è conforme e quindi” libero” e chi, invece, rifiuta di “normalizzarsi” e, dunque, va rinchiuso.
E non e’ tutto! Con le nuove proposte di legge in materia psichiatrica elaborate dell’attuale governo di centro-destra la situazione si avvia verso un sostanziale peggioramento: per quanto riguarda i T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio) si eliminano le, seppur formali, garanzie che permettevano di limitare, per quanto possibile, lo strapotere degli psichiatri.
Si torna a parlare di cronicità della malattia per giustificare l’inevitabilità di trattamenti e cure che durano tutta la vita , ma soprattutto si riaprono i manicomi attraverso nuove strutture, dette S.R.A. (strutture residenziali ad assistenza continuata), che ripropongono i modi e i criteri dei vecchi istituti di contenzione . Queste nuove istituzioni, inoltre, “ospiteranno” non solo pazienti psichiatrizzati, ma anche ex detenuti degli O.P.G (ospedali psichiatrici giudiziari), oltre che alcolisti e tossicodipendenti, ai quali si applicherà la famosa “doppia diagnosi”. Tossici e alcolisti si drogano e bevono semplicemente perchè “malati di mente”: ogni motivazione sociale o interpersonale viene completamente cancellata. E questa colpa individuale giustifica sempre più il fatto che essi vengano considerati non solo malati ma anche criminali, la cui presa in carico non viene più gestita dal sociale ma dalle forze dell’ordine.
Ci sembra necessario mettere in discussione le pratiche di esclusione e reclusione indirizzate a tutti quelli che non accettano il sistema di valori imposto dalla società capitalistica. Ci sembra necessario rompere il silenzio che permette il perpetuarsi della brutalità di tutte le istituzioni totali.

NON/LUOGHI:
n° 1. IL CARCERE

Una breve e parziale riflessione sul carcere diventa necessaria, come collettivo antipsichiatrico per l’evidente continuità che lega carcere e psichiatria, galere e manicomi vecchi e nuovi, per la sempre più forte ed evidente adozione di criteri repressivi e punitivi nella gestione di problematiche sociali, quali la tossicodipendenza e la così detta “malattia mentale”.
Problematiche queste che come per la commissione di crimini non si danno spiegazioni se non quella della colpa individuale, a cui si può rimediare solo attraverso la punizione, alle quali si fa fronte solo mediante una sorta di redenzione, e quando non è possibile, tramite l’esclusione completa dell’individuo dalla società e da se stesso.
Istituzione psichiatrica e istituzione carceraria hanno per noi la stessa valenza, lo stesso potere, lo stesso fine, cioè quello di annientare qualsiasi forma di dissenso, qualsiasi tentativo di esprimere un mondo altro, un’alternativa rispetto alle gabbie omologanti di cui tutti, ovunque e sempre possiamo rimanere vittime.
Trattando le nuove proposte di legge in materia psichiatrica e relative alla tossicodipendenza, è apparso evidente il tentativo del centro-destra di improntare le sua politiche a-sociali sui principi della ‘tolleranza zero’ e sulla sempre maggiore criminalizzazione di particolari gruppi o individui.

Del carcere non si parla mai. Anzi, se ne tace molto volentieri, così come da sempre accade per tutte le istituzioni totali, cioè quei non/luoghi di cui il potere si serve per allontanare tutti coloro che rappresentano un cattivo esempio per gli altri membri della società e che rappresentano un pericolo per la sopravvivenza del sistema stesso.
Parlandone, o facendo luce su quello che veramente è il carcere e come si vive al suo interno, potrebbe infatti svelare la tremenda violenza quotidiana su cui le democrazie si reggono, potrebbe farci capire i paradossi di questa società, potrebbe mettere in evidenza che nel carcere vigono gli stessi principi di controllo e repressione che regolano la vita degli individui in ‘apparente’ stato di libertà.
Anche per noi, come per tutti coloro che in carcere non ci sono mai stati, non è facile affrontare il discorso, perché riteniamo che solo chi ha vissuto all’interno di una istituzione che fonda la sua ragione d’essere sulla totale e a volte definitiva privazione della libertà, posso capire che cosa significhi la segregazione, la chiusura, l’espulsione forzata dal sociale e quindi la marginalizzazione.
E come noi neppure i così detti operatori carcerari, i tecnici del diritto, i sociologi, e la stessa custodia, non conoscono in realtà il carcere perché non hanno mai vissuto la privazione anche di quei feticci di libertà che il potere ci concede come tranquillante sociale.
Nostra volontà non è quella trovare alternative che possano migliorare la vita dei detenuti all’interno del carcere né di analizzare il sistema carcerario o le leggi e i regolamenti che normano il suo funzionamento per chiedere leggi più umane, vista l’arbitrarietà totale di valutazione sul comportamento del recluso che in carcere viene prima di qualsiasi codice legislativo. Nonostante questo, dato che di carcere si muore, riteniamo giusto prestare attenzione alle modifiche in atto all’interno dell’istituzione carceraria.
La direzione che va prendendo il sistema penitenziario si orienta su due livelli: il primo livello, consiste nella sua funzione classica, quella di contenimento di tutta quella fascia, sempre più numerosa, di persone che rimane strozzata dagli squilibri che questo sistema economico produce. Un esempio lampante dell’inasprimento di questa funzione è l’istituzione di lager per immigrati, dove si viene rinchiusi senza aver commesso alcun reato, ma semplicemente per il fatto di essere sprovvisti del permesso di soggiorno o più semplicemente per essere nati nel posto sbagliato..
Il secondo livello concerne, invece, la progressiva conversione della struttura carceraria alle regole del mercato globale. L’obiettivo è quello di rendere la galera sempre più produttiva e redditizia, affiancando al carcere pubblico altre strutture private, gestite da e come aziende, all’interno delle quali sfruttare il lavoro a costo zero dei detenuti, che pagano così oltre che con la reclusione, la loro prigionia.

Come per i manicomi, siamo convinti che non esista nessuno modo per riformare il carcere e nessun’altra istituzione chiusa basata su principi brutali e inumani come la segregazione e la separazione. Quella che gli individui vivono all’interno delle galere, dei manicomi civili e giudiziari, dei reparti psichiatrtici, ecc., è una non-esistenza, una condizione inumana che niente può giustificare.
Non vogliamo criticare a priori il lavoro di tutti coloro che quotidianamente lavorano nel carcere cercando così di alleviare ai detenuti e agli internati la sofferenza che deriva da questa loro condizione, ma vogliamo però sottolineare la parzialità di questo tipo di intervento, che finisce per trasformare gli operatori sociali o i volontari animati da buoni propositi, in conniventi del sistema carcerario stesso.
Questo accade ad esempio, per le pene attenuate (previste dai regolamenti o dalla legge Gozzini che dall’86 determina il funzionamento delle patrie galere), come la semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali, che finiscono per trasformarsi da misure alternative a misure che si affiancano alla reclusione vera e propria, portando così in altri ambiti i principi e i meccanismi su cui si basa il carcere stesso.
I compiti di educatori e assistenti sociali sono sempre più simili a quelli dei secondini: vigilare sulla condotta dei detenuti, sul rispetto delle regole che altri hanno definito per loro, sull’esatto svolgimento del trattamento. Il tanto paventato reinserimento si realizza solo se gli individui pentiti dei loro gesti, dell’oltraggio compiuto verso le indiscutibili regole imposte dalla società, mettono da parte se stessi, il loro libero arbitrio, la loro capacità critica per omologarsi ed accettare senza replica il sistema di valori imposto dalla società capitalistica.
Muovere una critica al carcere deve significare una messa in discussione della società tutta, dei suoi valori, dei suoi principi, dei suoi rapporti di potere. Significa comprendere che il crimine è arbitrariamente creato dalle stesse persone che poi lo puniscono, che sono poi le stesse che creano quelle disuguaglianze e quelle ingiustizie che conducono una sempre più ampia fascia di popolazione a compiere certi atti.
Il carcere sarà riformato solo quando esisterà un sistema, una società che liberi dalla necessità del carcere, che liberi dal carcere tutti e tutte.
Per questo, parlando di carcere il nostro obiettivo è quello di mettere in luce come galera e società non siano poi molto diverse l’una dall’altra, ma che al contrario, il sistema penitenziario nel suo insieme e i meccanismi che lo regolano non sono altro che lo specchio e il riflesso della società in cui da pseudo liberi viviamo.
Certo che vivere reclusi non è come stare fuori. Ma altrettanto certo è che questo fuori non è poi così diverso dal dentro. Qui infatti si ricreano e si radicalizzano inevitabilmente i processi che regolano l’intera società.
Come la società capitalistica, il carcere non è una struttura egualitaria, e come la prima funziona sul principio di premio/punizione in base al quale solo chi accetta passivamente regole, imposizioni, tempi e valori potrà godere di diritti e privilegi, preclusi invece a chi osa esprimere il proprio dissenso, il proprio senso di ingiustizia e di sopraffazione. Per questi ultimi non resta che l’allontanamento dalla società, un’esclusione che se non si compie direttamente attraverso il carcere si realizza mediante altri espedienti più o meno subdoli. Se non è possibile definirci criminali, diventeremo malati di mente, disagiati, folli, fanatici… comunque diversi e pericolosi, comunque etichettati e in qualche modo punibili e puniti.
La macchina del controllo che dentro alla prigione si concretizza nell’incessante presenza del secondino e nella porta chiusa a chiave, è onnipresente anche all’esterno, non solo attraverso le forze dell’ordine, la militarizzazione degli spazi urbani, ma anche mediante altri strumenti invisibili e spesso irriconoscibili, ma capillarmente diffusi.
Il carcere è ovunque, negli occhi delle telecamere che ci controllano qualsiasi cosa facciamo, nella possibilità di ascoltare tutte le nostre conversazioni telefoniche o telematiche, ma anche nel consumo passivo di merci, nell’alienazione del lavoro, nel bombardamento mediatico.
Il carcere è ovunque perché scopo del potere è comunque quello di limitare gli spazi di libertà e dell’espressione della propria individualità, a favore di una sempre omologazione capace di cancellare l’alterità.
Le società complesse dell’era della globalizzazione sono sempre più improntate su questi meccanismi di controllo e di repressione dei quali è opportuno prendere coscienza, dei quali è essenziale scoprire il vero volto. Le telecamere non servono alla sicurezza dei cittadini, gli psichiatri non aiutano i malati, le galere non servono a riabilitare egli individui che hanno commesso degli errori.
Tutte queste istituzioni, che sempre più persone oggi subiscono, sono funzionali solo ed esclusivamente a proteggere interessi di poteri alti, a difendere i loschi affari di chi si arricchisce sulla pelle degli altri, dei più deboli, degli stati più poveri. Sono funzionali all’eliminazione di qualsiasi tipo di conflitto che possa in qualche modo scalfire questo stato di cose, alla socializzazione di idee di cambiamento radicale che conduca alla fine di questo sistema basato sul sopruso.

ALCUNI DATI GENERALI SULLE CARCERI ITALIANE

NUMERO DELLE CARCERI SUL TERRITORIO ITALIANO: 200

CAPACITA’ TOTALE: 35.000 POSTI

50.000 DETENUTI/E:

47.000 UOMINI
3.000 DONNE
13.000 IMMIGRATI
15.000 TOSSICODIPENDENTI
4.000 SOFFERENTI DI ‘TURBE PSICHICHE’
2.500 SIEROPOSITIVI

(in media però ogni carcere contiene il doppio dei detenuti rispetto alla sua capienza effettiva)

NON/LUOGHI
N° 2. IL CARCERE NEL CARCERE: I C.D.T.

Se non c’è niente di più brutale e irrispettoso della dignità umana di una istituzione come il carcere, è vero anche che non c’è limite al peggio. C’è chi, infatti, all’interno delle prigioni subisce una segregazione e una ancora più drastica riduzione della propria libertà e della propria individualità. Questi sono i così detti malati di mente, semi infermi di mente totali e parziali, o che dir si voglia, persone che una volta in carcere subiscono un trattamento ancora peggiore degli altri perché sottoposti a una doppia pena, quella della privazione della libertà e quella dell’intervento psichiatrico.
Chiusi all’interno di reparti separati, i detenuti psichiatrizzati vedono i loro già logori diritti ridursi ancora più drasticamente, vedono la loro dignità di essere umani calpestata definitivamente: i loro colloqui sono ridotti rispetto a quelli degli altri detenuti, la loro corrispondenza e le loro telefonate sono costantemente sottoposte a controlli.
Non solo criminali ma anche folli, incapaci di intendere e di volere, non-persone a cui non vale neanche la pena riconoscere un benché minimo diritto, a cui non si riconosce nessuna sensatezza, di cui non si può e non ci si deve minimamente fidare. Ovviamente come il carcere peggiora per intervento della psichiatria, lo stesso vale per la psichiatria stessa, che all’interno di tale contesto mostra tutto il suo carattere repressivo e coercitivo, nascondendolo però dietro la maschera della terapia e della riabilitazione.
Non a caso la psichiatria è nata in carcere, prima del XIX secolo, da un accordo tra potere ecclesiastico, medico e giuridico di cui la psichiatria somma in se tutti gli aspetti più aberranti e repressivi.
I centri diagnostici e terapeutici, cioè i reparti psichiatrici interni alle prigioni sono poi tristemente noti per gli elevati numeri di suicidi che al loro interno si sono compiuti. Negli ultimi mesi, nel C.D.T. del carcere di Marassi, a Genova, tre detenuti si sono suicidati perché probabilmente incapaci di sopravvivere in quest’inferno che alle sbarre fisiche della cella unisce quelle mentali degli psicofarmaci, dei trattamenti, e delle violenze che questa falsa scienza impone per riconvertire gli individui ai dictat che la società impone.
Non c’è luogo come il carcere in cui la somministrazione di droghe sempre nuove sia sperimentata da psichiatri su persone ridotte allo stato di cavie vere e proprie. L’uso di contenimenti chimici sono costituiti essenzialmente da sostanze psicotrope come antidepressivi, sedativi e tranquillanti spesso con potere ipnotico, che funzionano come nuove e invisibili camice di forza. Facendoli passare come ‘cure’ il potere psichiatrico e giudiziario riescono così a raggiungere il loro scopo fondamentale, cioè la modificazione del comportamento e la sua omologazione in base a schemi prestabiliti e socialmente accettati.
E l’obiettivo di questi trattamenti diventa evidente se si fa riferimento ad alcune in particolare delle droghe somministrate ai detenuti ‘trattati’, come l’Acnetine, (un derivato del curaro), che producendo paura e panico è utilizzata in terapie di avversione al sistema dominante..

Riportiamo un’intervista ad un ex-detenuto nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove, come molti, ha subito la doppia condanna al carcere e alla psichiatria.

* Come avviene il passaggio dalla sezione in infermeria?
* Premettiamo una cosa: Sollicciano è composto da 13 sezioni separate fra di loro, delle quali 8 stanno al giudiziario, le altre 5 al penale. Poi c’è l’infermeria centrale, che altro non è che un centro clinico, semplicemente più carente di mezzi dei normali centri clinici. Il fatto che si chiami infermeria centrale serve alla direzione del penitenziario per giustificare le carenze strutturali. Esistono diversi modi per passare da una normale sezione all’infermeria centrale: puoi farti male ad un piede e vieni portato lì, più generalmente viene utilizzata come reparto psichiatrico, tant’è che i lungodegenti, di media, sono sempre pochissimi rispetto agli altri che sono considerati pazienti psichiatrici.
Io vi posso raccontare come ho fatto a finire in questo posto.
Quando fui arrestato bevevo parecchio e fui portato nella prima sezione, che è quella dei tossicodipendenti, causa mancanza di spazio. Precedentemente avevo passato la visita generale dal medico di guardia; le raccontai che bevevo e lei mi prescrisse 7 milligrammi di Alcover, una specie di placebo. Mi presi questi 7 milligrammi e andai in sezione. Mi iniziarono a tremare le mani, mi sentii male e svenni in cella, rompendomi il naso. Cadendo da seduto, andai a sbattere. Mi risvegliai in ospedale, a Ponte a Niccheri (forse, ero troppo confuso, non ricordo), sono stato a lungo incosciente. Lì mi hanno fatto una serie di analisi e poi mi hanno rimandato in carcere, ma appena arrivato la dottoressa mi disse che dovevo ritornare al centro clinico, perché non si riusciva a capire se la causa fosse l’astinenza dall’alcool o altro. Arrivato, mi chiamò il dott. Iannucci perchè pensavano che questo svenimento potesse essere stato causato da una qualche sindrome psichiatrica. E lì, sono rimasto per tre anni e non mi hanno più mollato. Iannucci, dopo un pò mi consigliò di prendere qualcosa per l’umore e mi prescrisse il Prozac, uno di mattina e uno di sera. Ma il Prozac, non ti lascia dormire, così mi dette anche il Tavor da prendere la sera ( 30 gocce).
Io sono sempre stato convinto di non aver mai avuto bisogno del Prozac e, conseguentemente del Tavor. Stavo bene, a parte qualche attacco di panico ogni tanto e un pò di disturbi al campo visivo. Poi mi fu “aggiustata” la terapia di nuovo con l’Alcover. Il problema però era che questi Prozac che prendevo, mi facevano l’effetto di anfetamine, mi rendevano schizzato..
Avevo quasi disimparato a parlare, nel senso che parlavo così veloce, che le labbra non seguivano la mente. Questo processo mi separava dalle persone, che non riuscivano a seguire i miei passaggi logici e, automaticamente, ciò diventò diagnosi.
Dopo un po’ smisi la “cura” di Prozac, ma con il Tavor, non ci sono riuscito, perché la dipendenza fisica che mi dava era troppo forte.. Malessere fisico, allucinazioni.. come una crisi d’astinenza da oppiacei .
Poi cambiò qualcosa e nel reparto non lo passavano più: e me lo dovevo comprare con i miei soldi e, chiaramente, non l’ho acquistato .
Ogni volta che chiedevo di tornare in sezione non mi ci mandavano perchè dicevano che c’era il vino e tutta una serie di cose che poteva nuocermi. Sono riuscito ad uscire da questa situazione perchè una volta andai da una dottoressa e le chiesi di aiutarmi ad uscire dalle grinfie di questi signori.
Fece in modo di non farmi parlare più con Iannucci.

* Com’è la quotidianità in un reparto psichiatrico del carcere?

* Non si può cucinare perchè fornelli e bombole sono ritenuti pericolosi. Ti svegli, prendi la terapia e ti riaddormenti subito, poi scendi a passeggio un’ora. Sempre di mattina, ci sono le visite mediche; il pranzo e’ alle 11- 11,30 e non è previsto nessun vitto speciale, né diete mediche specifiche, esclusi rarissimi casi di diabete, perchè l’amministrazione penitenziaria risparmia sulla salute dei detenuti.
C’è un’altra ora e mezzo di pomeriggio e poi niente, televisione, solo quella. Sei degente, non puoi lavorare, non puoi andare a scuola, non puoi fare niente, tranne quella volta ogni sei mesi in cui organizzano uno spettacolino.

* Ho saputo che i detenuti in un reparto psichiatrico del carcere non possono lavorare all’interno, è vero?

* Macchè, è una bugia grossa come una casa: ad esempio sono stato utilizzato come operatore di computer a scuola, un’altra volta ho fatto un corso di disegno per extracomunitari con un’insegnante che poi e’ stata buttata fuori perchè era troppo brava coi detenuti. Poi ho fatto teatro perchè serviva un’altra persona a recitare nel gruppo, però quando c’era lo spettacolo, io non potevo andare.
Sei addormentato dalla mattina alla sera, la giornata è scandita dai tre turni di terapia.

* E la terapia e’ uguale per tutti?

* No, per esempio, l’Aspirina non c’è, per il mal di testa non si trova niente, ma di psicofarmaci, ne trovi quanti ne vuoi: Minias, Tavor, Valium, Prozac, etc.. Poi ci sono i farmaci a lungo assorbimento. Se Iannucci decide che tu ne hai bisogno, ti portano a Montelupo (O.P.G), dove ti fanno una prima iniezione di questa roba.

* Come funziona il passaggio clinico a Montelupo?

* Iannucci decide e tu parti. Ci sono delle cose che nel reparto non possono fare, come il dosaggio di questi farmaci a lungo assorbimento, praticato solo a Montelupo. L’infermeria di Sollicciano non è che la dependance di Montelupo. Tanto per spiegare: un ragazzo, ritenuto dal giudice, incapace di intendere e di volere è stato mandato a Montelupo per essere curato. Altri perchè ha dato in escandescenza o perchè ha un tipo di comportamento che non rientra nei loro canoni. Ad esempio un ragazzo nigeriano che aveva serie preoccupazioni per la sua famiglia, ovviamente ha iniziato a stare male, ma non riusciva a spiegarlo, parlando solo inglese. Non sopportando più le derisioni di tutti e l’isolamento che viveva è “sbroccato”, si è spogliato nudo ed ha iniziato a prendere a morsi tutti. È stato mandato direttamente a Montelupo. Inizialmente, la degenza a Montelupo dura una quarantina di giorni.
Iannucci e i suoi collaboratori mandano continuamente avanti e indietro, da Sollicciano a Montelupo, i detenuti. Lui si occupa solo di urgenze, così, anzichè prendere 30.000 lire a visita, ne prende 150.000 perché è una urgenza.

* E le visite, come funzionano?

* Niente, ti chiamano, vai là e ti chiedono come stai. Tu gli rispondi, “bene” e loro scrivono che sei agitato, che non hai ancora accettato la tua malattia, il tuo disagio e ti ridanno la terapia.
Quando hanno tempo da perdere, parlano solo loro e ti raccontano aneddoti sui pazienti, non gli interessa sapere come stai perchè tu sei 70-100.000 lire a settimana. Chiesi le fotocopie delle mie cartelle cliniche e c’era scritto sempre che ero agitato e che avevo bisogno di cure, non riuscivo a capire perchè non riuscivo ad andarmene, è puramente una questione economica.
Poi c’è un’altra cosa, che il carcere è invivibile, e non stanno tanto bene neppure i secondini, che se la rifanno con i detenuti che stanno in una situazione ancora peggiore. Tutto questo, porta tutti a desiderare di dormire, di estraniarsi il più possibile da questa situazione. Gli psicofarmaci sono l’unico modo per il potere di gestire il carcere. Su circa 1050 detenuti, 800 prendono psicofarmaci. Esiste anche un pronto soccorso psichiatrico a Sollicciano, gestito da uno psichiatra di turno.
Ormai fuori posso parlare male degli psicofarmaci, ma se facessi questo discorso davanti ai miei ex-colleghi detenuti litigherei con tutti, perchè togliere queste sostanze a chi si vive l’orrore del carcere significa togliergli il sonno, gli unici momenti di incoscienza, di stordimento in cui rifugiarsi. Gli psicofarmaci sono la droga ufficiale di Sollicciano.

* E il pronto soccorso psichiatrico, come funziona?

* Non funziona! se hai una crisi lo psichiatra di turno arriva dopo quattro-cinque ore e ti fa un T.S.O; dopo qualche giorno, vai a Montelupo. La seconda volta che sono finito in infermeria centrale è stato dopo che sono rimasto vedovo, mia moglie è morta in un incidente stradale. Non avevo voglia di parlare più con la gente, mi dicevano tutti le stesse cose e mi scocciavo. Mi riportarono subito nel reparto, fu proprio Iannucci a farlo con la scusa di monitorarmi. Se non era per una questione di spazio sarei rimasto lì chissà quanto tempo.
Il cibo poi è immangiabile. Se ti prende il mal di testa il giorno in cui non è fissata la visita medica, sei fregato. Ci sarebbe il medico di guardia, ma non ci sta mai. L’infermiere, poi, ti dice di non rompere i coglioni al medico, a meno che non sia una cosa importante, quindi, chiama il medico per telefono e si fa prescrivere qualcosa per te.
Una volta, mi è venuto un dolore ai reni che mi sembrava di morire, allora l’infermiere telefona al medico che sottovaluta il caso nonostante il racconto dicendo che ero una persona in terapia e che quindi ero inattendibile. Alla fine, convinto dall’infermiere, mi diede il Buscpoan, che non mi fece niente. Il dottore non mi voleva più sentire perchè visitare due volte la stessa persona gli viene pagata come fosse una sola visita, e quindi preferiva visitare un altro. Fortunatamente, alle 10 di sera cambiò il turno e il nuovo medico, mi fece due iniezioni di antidolorifico .Avevo un blocco renale, cosa che non capita raramente alle persone in terapia.

* Ma la posta e i colloqui hanno una regolamentazione uguale a quella degli altri detenuti fuori dal reparto?
* Si e’ uguale, a meno che tu non sia legato….

* Perché, legano ancora?

* Di solito no, ma per esempio, nei casi di autolesionismo continuato ti spogliano nudo e rimani in questa cella con una branda d’acciaio, come stare in terra, senza materasso, né coperta. Non hai nulla, non puoi fare nulla, solo battere la testa nel muro. Quando ci sono le visite, si inventano qualcosa per non mostrarti ai parenti completamente rintontito dagli psicofarmaci.
L’infermeria centrale è composta da 12 celle, 5 nel lato corto e 7 nel lato lungo. La prima cella e’ per due persone, anche la seconda e la terza. Tutte per due, a parte la quinta che è per tre. In tutto ci sono più o meno 40 persone; ora, fortunatamente, hanno riaperto la “socialità” dalle cinque di sera, prima impedivano ai pazienti di vedersi e minacciavano di chiamare lo psichiatra in caso di litigio.

* Come sono i rapporti con gli altri detenuti?

* Ovviamente, dipende dal carattere, c’è chi ti piace e chi no, normale.

* Ma quelli che sono in infermeria, vengono visti come gli altri oppure discriminati?

* Se stai in infermeria, come fuori, sei il matto.
L’avvocato d’ufficio e’ una pura formalità, non serve a niente, non gliene frega niente.

* Volevo capire meglio come funziona il fatto che tu ti debba pagare la terapia.

* Se ti prescrivono un farmaco che non tengono in infermeria centrale, se hai soldi lo puoi ottenere pagando, altrimenti te lo sostituiscono con i farmaci che hanno. Anche i farmaci mutuabili spesso non si trovano.

* Se vuoi dire ancora qualcosa su questo carcere nel carcere…
* E’ una doppia punizione, se uno può, cerca sempre di ritornare in sezione. Ci va volentieri solo qualche omosessuale in vena di fidanzamento perchè lì vicino c’è il reparto D (diversi), dove sono rinchiusi i travestiti!!!…..

* Quello che fa male pensare e’ che ti hanno prima rinchiuso nel reparto psichiatrico, tralasciando completamente il fatto che le tue crisi fossero dovute all’astinenza da alcool, pur sapendolo benissimo…

NON/LUOGHI
n° 3. OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

La costruzione teorica che giustifica l’esistenza di strutture aberranti come l’O.P.G. è da ricercarsi nell’associazione lombrosiana fra malattia mentale e violenza.
Essa si è talmente radicata nella cultura che, nonostante sia passato molto tempo dalle teorizzazioni di Lombroso, permane ai nostri giorni la sostanziale diffidenza nei confronti del comportamento e della parola di chi è considerato malato di mente.
In parole povere l’O.P.G ha avuto così tanto successo perché permetteva la segregazione di chi ha come unica colpa quella di esprimersi diversamente, di vivere in condizioni disagiate, di essere quello meno forte in un conflitto o di essere non conformi all’ordine costituito.
Ed è sempre stato l’irrazionale terrore che il diverso suscita negli omologati al sistema a giustificare le forme di contenzione fisica e farmacologica che hanno il solo scopo di annientare la persona.
Chi ha la sfortuna di essere intrappolato nella maglia della psichiatria, sia a livello manicomiale che carcerario, viene automaticamente considerato una non/persona, priva quindi di qualsiasi sentimento o diritto.
La segregazione in O.P.G, come nei reparti psichiatrici all’interno delle carceri, infatti, può essere considerata una “doppia pena”. La restrizione della libertà, già di per sé violenta e disumana, sembra non essere una pena sufficiente.
Essa deve essere accompagnata da una terapia farmacologica che garantisce la totale non pericolosità del soggetto in questione.
La storia e il quotidiano ci insegnano come sia molto più semplice tenere lontano, reprimere tutto ciò che mette in discussione la nostra cara normalità. Molto più difficile sembra essere accettare la diversità, confrontarsi con essa; mettersi in discussione, capire, richiede uno sforzo sicuramente maggiore di quello necessario per la negazione dell’altro.
Non scardinare questo meccanismo significa alimentare l’intolleranza nei confronti dell’immigrato, del detenuto, del tossicodipendente, dello zingaro, del malato mentale.

Uno dei concetti chiave che giustificano l’applicazione di misure di sicurezza1, come ad esempio all’interno dell’O.P.G., è quello di imputabilità.
L’imputabilità è l’insieme delle condizioni previste dal diritto penale, in particolare la capacità di intendere e volere, necessarie affinché un soggetto possa essere ritenuto responsabile delle proprie azioni e possa essere chiamato a risponderne.
Durante il processo il giudice può comminare2 o meno una misura di sicurezza a seconda della capacità di intendere e volere attribuita al soggetto giudicato.
Il codice penale prevede tre possibilità. Nel caso in cui il soggetto è dichiarato capace di intendere e di volere egli è considerato imputabile e quindi verrà sottoposto ad un processo che stabilirà la sua colpevolezza o innocenza. L’incapacità di intendere e di volere è correlata al proscioglimento dell’accusa, quindi all’applicazione di una misura di sicurezza. In questo caso il processo viene interrotto.
Non si riconosce il diritto alla difesa e il soggetto è giudicato e rinchiuso.
L’attestazione di una infermità è correlata all’applicazione di una pena diminuita da sommare ad una misura di sicurezza in casa di cura o O.P.G.; solo quando si riterrà venuta meno la pericolosità sociale il soggetto sarà pronto per scontare la propria pena in carcere.
Dichiarare che un soggetto è incapace di intendere e di volere significa quindi non solo negare le ragioni per cui un individuo, in un particolare momento della sua vita, ha deciso di compiere un determinato atto, ma anche condannarlo senza che egli abbia mai più la possibilità di difendersi dalle accuse che gli sono rivolte.
Chi da quel momento in poi darà ascolto alle parole di un “pazzo criminale”?
Il soggetto che si accolla la responsabilità di stabilire la capacità di intendere e di volere di qualcuno è lo psichiatra. La perizia che egli, su richiesta del giudice, è chiamato a stilare deve rispondere a tre quesiti fondamentali:
– se al momento del fatto il soggetto era capace di intendere e di volere
– se questa capacità è temporanea o permanente
– se ciò fosse dovuto da infermità mentale o cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, e se sia attualmente persona socialmente pericolosa.
Nonostante non esista nessun fondamento scientifico si persiste a dare per scontato che dove c’è malattia mentale c’è anche incapacità di intendere e di volere. La diagnosi risulta funzionale all’incasellamento del soggetto all’interno di categorie che, a loro volta, giustificano l’intervento terapeutico, cioè un massiccio bombardamento farmacologico.
Accolta la perizia il giudice deve stabilire in via definitiva se il soggetto è da considerarsi o meno capace di intendere e di volere, avvalendosi del suo ruolo istituzionale e della sua autonomia.
Egli, in sostanza, potrebbe giungere a conclusioni che si discostano notevolmente da quelle del perito.
Potrebbe, ma nella realtà dei fatti il giudice finisce con l’attenersi puntualmente al risultato della perizia, delegando al perito un potere straordinario: quello di essere allo stesso tempo Pm e giudice.
Ovviamente anche nell’interrogatorio che precede la stesura della perizia vengono negati al soggetto i diritti alla difesa. Infatti questa avviene senza la presenza di altre persone, nemmeno dell’avvocato difensore, e l’imputato non viene avvertito che le informazioni che fornisce al perito possono essere utilizzate per una sua condanna.

“Tutte le misure di sicurezza personale sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il reato è persona socialmente pericolosa”. (art. 31, comma 2, n.663/86 legge Gozzini)

La legislazione italiana prevede un diverso criterio a seconda che vengano comminate pene vere e proprie o misure di sicurezza, durata predeterminata per le prime, indeterminata per le seconde.
Poiché per chi è considerato non imputabile non è prevista una sanzione penale, si fa ricorso alle misure di sicurezza a tempo non determinato, armi attraverso le quali il potere giudiziario assicura comunque l’allontanamento di soggetti potenzialmente pericolosi per l’ordine costituito.
La pericolosità sociale però è un concetto arbitrario che rispecchia la cultura del tempo: così nei secoli pericoloso poteva essere l’omosessuale o chi si masturbava, senza nessun fondamento di altro ordine.
Giuridicamente è considerato pericoloso il soggetto che abbia commesso reato e che per lo stesso non sia considerato imputabile, ma a cui è attribuita una capacità di commettere in futuro non necessariamente la stessa tipologia di reato, ma qualsiasi altro reato previsto dal codice di procedura penale. Inoltre questo risulta essere in contrasto con le tesi psichiatriche stesse che non riescono a dimostrare la connessione fra malattia mentale e reato.

Rapporti con i servizi territoriali

Un ruolo importante è svolto dai servizi psichiatrici territoriali come il CSM (centri di salute mentale) e il CIM (centri d’igiene mentale), strutture che dovrebbero funzionare da cuscinetto fra l’O.P.G. e la società.
Infatti per chi non esistono più le condizioni per l’internamento in O.P.G., dovrebbe trascorrere un periodo di almeno sette giorni in una di queste strutture. Ma o esse stesse non sono fisicamente presenti nel territorio, come invece era previsto dalla legge 180/78, oppure quelle poche strutture esistenti preferiscono delegare la responsabilità del folle reo agli operatori degli O.P.G, chiedendo loro di prolungare il periodo della misura di sicurezza. A questo si aggiunge il fatto che i familiari possono negare la firma per l’uscita dell’internato e quindi una presa di responsabilità dello stesso.
Paradossalmente si è convinti che all’interno di un’istituzione ancora più violenta del carcere il recluso possa trovare una risposta adeguata al suo malessere, sottendendo il fatto che egli non ha la facoltà di scegliere né se essere curato, né dove né da chi. Ma come si può pensare che la privazione della libertà associata ad un intorpidimento del cervello possa essere una condizione migliore a cui aspirare?
Il tentativo sia della psichiatria istituzionale che dell’O.P.G. di conciliare la cura dell’individuo malato con la protezione della società dall’individuo stesso, è un meccanismo su cui si basa qualsiasi istituzione totale.
I danni che questa pratica comportano smascherano la reale funzione sociale dei trattamenti farmacologici.
Nella pratica l’esigenza di proteggere la società prende il sopravvento sull’intervento “terapeutico” svelando la vera funzione delle terapie farmacologiche: forme di controllo fisico e psicologico.
La terapia farmacologia prolungata oltre i limiti prestabiliti dalle stesse case farmaceutiche è funzionale ad un ampliamento del controllo oltre le mura dell’O.P.G. stesso.

NON/LUOGHI
N° 4.: LE COMUNITA’ PER TOSSICODIPENDENTI

Con la mozione Volonté del gennaio del 2002 il governo di centro destra propone le politiche da adottare in materia di tossicodipendenza, con l’evidente volontà di estendere anche in questo campo il principio di ‘tolleranza zero’.
L’approccio più efficace per eliminare il problema deve essere di carattere autoritario e repressivo: le politiche sociali sulla droga verranno gestite da un superorgano poliziesco, il D.N.A. (dipartimento nazionale antidroga), capeggiato dall’ex prefetto Sotgiu e alle dirette dipendenze della presidenza del consiglio.
L’imperativo da seguire è che la droga è una sola e va combattuta con ogni mezzo necessario: basta con la distinzione tra droghe pesanti e leggere, basta la terapia della riduzione del danno e qualsiasi altro intervento simile, come quello dei centri di accoglienza a “bassa soglia”.

La nuova terapia farmacologica sostitutiva, che può essere gestita da strutture private accreditate (esempio comunità brevi), è molto simile all’astinenza: un periodo massimo di tre mesi con il minimo delle dosi senza possibilità di cominciare, in questo arco di tempo, un qualsiasi tipo di intervento riabilitativo La riabilitazione è possibile solo in uno stato di completa disintossicazione (drug-free) anche dai farmaci sostitutivi e anche questa può essere gestita dal privato sociale.
In linea con questi principi la cura e la riabilitazione verranno portate avanti con logiche ‘custodialistiche’ e punitive, avvalendosi della collaborazione della psichiatria e delle strutture carcerarie e lasciando sempre più spazio di intervento alle comunità terapeutiche stile San Patrignano.
Insomma le parole d’ordine della nuova crociata antidroga perdono quella connotazione buonista e funzionalmente democratica propria del binomio ‘curare-reinserire’, per assumere contorni fascio-cattolici del meccanismo ‘esorcizzare/rinchiudere’.
La cura diventa un esorcismo perché l’individuo viene spogliato di se stesso e ridotto ad essere un’anonima appendice della malattia chiamata dipendenza: quella specie di virus che annulla la sua capacità di intendere e di volere in modo irreversibile.
Come se la condizione della tossicodipendenza lo avesse modificato definitivamente, per cui potrà riuscire a disintossicarsi, ma non sarà mai guarito. L’individuo resterà un malato a vita, una non-persona a cui è negato l’accesso a una normalità che non gli può più appartenere.
Per questo la riabilitazione viene portata avanti in luoghi che non convergono con il mondo reale, di cui sono i surrogati, ma che dalla realtà proteggono chi ha per sempre perso la capacità di gestire di se stesso L’individuo non viene reinserito, viene rinchiuso.
Le strutture dove sperimentare nuove forme detentive sono definite residenziali o semi-residenziali. Queste sono le nuove carceri private, i luoghi alternativi alla vita reale in cui l’individuo rimane come sospeso, in attesa di un fantomatico reinserimento, così distante quanto il tessuto sociale da cui viene inevitabilmente tagliato fuori.
Lo stesso discorso vale per comunità terapeutiche a cui adesso verrà affidata la gestione di quelle carceri che saranno privatizzate e poi riconvertite in luoghi di recupero per tossicodipendenti (il primo esempio dovrebbe essere il carcere di Castelfranco in Emilia gestito dalla comunità di San Patrignano). Le comunità di recupero sono i luoghi dove impera il ‘custodialismo’ e il concetto di “cura” si trasforma in quello del “prendersi cura”.
In questi luoghi l’individuo viene responsabilizzato attraverso la “pressione” del gruppo e le parole del leader carismatico di turno e poi guarito mediante l’interiorizzazione dell’etica del lavoro.
Lavorare è la condizione comune alla maggior parte della società, qualcosa che conforma e contemporaneamente conferisce una sorta di rispetto, di dignità alla persona, perché la rende utile, o così la fa sentire.
In questo modo lo sfruttamento e la manodopera a basso costo, essendo finanziati attraverso il fondo nazionale per la lotta alla droga, garantiscono al datore di lavoro un periodo di manodopera quasi a costo zero: aziende come Ikea ed Emmelunga, ad esempio, sfruttano queste ‘categorie protette’ di lavoratori per incrementare i loro profitti elargendo salari da fame.
Ma non è tutto. Il privato sociale entra, sotto forma di Ente ausiliare, anche nella gestione, a livello operativo e decisionale, dei nuovi Dipartimenti Funzionali delle Dipendenze (uno per ogni A.s.l.), con il compito di coordinare gli organi e le strutture con competenze relative “al trattamento, reinserimento e prevenzione dei problemi correlati all’uso di sostanze e comportamenti assimilabili”.
Questi mega-dipartimenti sono organizzati senza che nella mozione sia specificato dove vengono prese e come devono essere utilizzate le risorse, né quali sono le competenze e gli ambiti specifici di ogni realtà che ne fa parte.
Proprio in questo tipo di strutture, sgravate dalla lentezza burocratica, il privato sociale si inserisce facilmente portando avanti la sua politica aziendale, a-sociale e disumanizzante.
Gli enti privati concentreranno sempre più potere nelle loro mani perché gestendo, tramite la loro presenza nella Consulta Regionale delle Tossicodipendenze, l’accesso all’Albo degli Enti Ausiliari decideranno chi andrà a dirigere e coordinare il Dipartimento Funzionale delle Tossicodipendenze.
Ovviamente i criteri di appartenenza\esclusione saranno gestiti con logiche clientelari, facilitando quelle comunità terapeutiche già operanti nel territorio che cercheranno di mantenere una sorta di monopolio sull’intervento residenziale e si prodigheranno per imporre le loro politiche in campo terapeutico. Di pari passo con queste tendenze vanno le restrizioni poste ai SERT:
apertura cinque giorni a settimana per almeno cinque ore(in orari periferici) limitando così la possibilità di accesso a chi è in trattamento e lavora.

Ci sembra evidente che il tentativo di smantellare una parte dell’assistenza sanitaria pubblica per i tossicodipendenti, creando una fascia di utenti privilegiata che usufruisce di servizi a pagamento gestiti da associazioni profit e dal privato sociale, che sono più flessibili e quindi capaci di creare strutture con assistenza continuata 24/24h.
Ci sembra di poter leggere in tutto ciò un ruolo completamente nuovo offerto alla psichiatria. Anche se da sempre i Servizi per le Tossicodipendenze hanno avuto nel loro organico, e possibilmente alla guida, uno Psichiatra, oggi la tendenza a considerare i comportamenti da abuso strettamente legati alle patologie psichiatriche, porta ad un ulteriore avvicinamento delle due specializzazioni di cura.
Da un paio d’anni è nato il concetto di DOPPIA DIAGNOSI: difficile spiegare in poche frasi l’idiozia di un concetto tanto funzionale alla crisi della Psichiatria. Questo nuovo punto di vista sostiene che dietro alla dipendenza da una sostanza si nasconde un malessere dell’individuo, non un malessere determinato da condizioni materiali o sociali, ma da vere e proprie cause organiche.
Contemporaneamente assistiamo alla riforma dei servizi psichiatrici con un disegno di legge che prevede la riapertura di manicomi privatizzati, immaginati come piccole comunità terapeutiche gestite dalle associazioni di cui sopra, e che prevede inoltre l’ampliamento della possibilità di effettuare Trattamenti Sanitari Obbligatori, in poche parole ricoveri coatti, a coloro che soffrono di malattie psichiatriche se per esempio rifiutano di farsi curare. Attraverso l’artificio della doppia diagnosi colui che inciampa nei servizi per le tossicodipendenze (anche solo per essere stato sorpreso per un quantitativo minimo di hascisc), viene etichettato come paziente DOPPIA DIAGNOSI.
In questo modo, egli rischia, senza sapere come appellarsi, di ritrovarsi rinchiuso in uno di questi manicomi privati e di entrare, quindi, nel vortice della medicalizzazione psichiatrica da cui è estremamente difficile, per non dire impossibile, uscire.
Il tossicodipendente è “malato mentale” e come tale deve essere affidato alle strutture di competenza, in questo caso i reparti di Diagnosi e Cura Psichiatrica (previsto almeno un posto letto per struttura) e sottoposto a T.S.O.(trattamento sanitario obbligatorio). Un ultima è gustosa tessera del mosaico ci viene regalata dal costo di questo progetto che vede le rette giornaliere offerte dal servizio sanitario nazionale per i pazienti in DOPPIA DIAGNOSI molto più cospicue di quelle attualmente offerte alle comunità residenziali per i “semplici” tossicodipendenti. Rendendo quindi ancora più interessante il business tossicodipendenza.

Confinare gli stili di vita, i comportamenti e le scelte incomprensibili e comunque non condivise dalla maggior parte degli onesti cittadini.
Creare un territorio protetto, per proteggere in realtà chi sta fuori, dove chiunque può essere sottoposto a controllo-verifica-diagnosi.
Il principio di ‘manicomialità’ si diffonde, portando con sé la necessità delle rassicuranti diagnosi scientifiche, per spiegare un’alterità altrimenti pericolosa perché non definibile.
Quell’alterità che i medicopsichiatri chiamano PATOLOGIA e i sociopsicologi etichettano come DISAGIO.

1 Misura di sicurezza: qualsiasi provvedimento preso dall’autorità giudiziaria nei confronti di chi viene considerato o sospettato di essere socialmente pericoloso.

2 Comminare: stabilire una pena per i trasgressori di una legge.