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Un lager italiano: quei matti da slegare

Nota: Questo articolo di Daniele Barbieri è tratto da AVVENIMENTI del 20 settembre 1995
(Copyright 1995 Libera Informazione Editrice S.p.A.)

SCHEDA/LA LEGGE
RECLUSI ANCHE PER REATI LIEVI

La legge 180 del 1978 puntava all’abolizione dei manicomi e a creare “Servizi di diagnosi e cura” ma anche “appartamenti protetti” e altre strutture d’appoggio per ex degenti manicomiali o per nuovi utenti dei servizi psichiatrici. Osteggiata in mille modi e mai finanziata, la legge 180 e’ stata applicata, piu’ o meno bene, solo in alcune zone d’Italia. Ancora peggiore la situazione dei vecchi “manicomi criminali” ora ribattezzati Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg): le riforme li hanno solo sfiorati, lasciandoli sostanzialmente immutati. Probabilmente si e’ convinti che chi finisce in un Opg sia quasi sempre un pericoloso assassino. Non e’ cosi’: ci si puo’ trovare qui anche per un furto o per avere procurato lesioni guaribili in dieci giorni. Impedendo il ricovero coatto in manicomio, la “180” ha avuto l’effetto paradossale (e non voluto) di incrementare l’ingresso nei manicomi giudiziari per reati particolarmente lievi e anche per vicende che palesemente non hanno a che vedere con turbe psichiche (qualunque cosa si intenda con questa definizione): tanto per capirsi, l’ubriaco che insulta gli agenti o chi vuole spacciare assegni falsi. Vista la lentezza della giustizia italiana (piu’ volte condannata per questo in sede europea) si puo’ rimanere per molti mesi in Opg aspettando la perizia ordinata dai giudici. Qualcuno potrebbe dire – con un misto di cinismo e rassegnazione – che rispetto al passato e’ comunque un piccolo progresso. Infatti, negli anni Settanta il giudice di sorveglianza di Firenze effettuo’ alcuni controlli sul manicomio criminale di Montelupo e scopri’ che molti detenuti erano stati dimenticati li’, senza nessuna condanna: come P. P. arrestato nel 36 per omicidio e liberato nel 71 per non avere commesso il fatto, o come F. M. imputato nel 1923 per omicidio e mai processato che venne messo in liberta’ provvisoria nel 1973, dopo cinquanta anni di carcerazione preventiva.

LA STORIA DEI MANICOMI CRIMINALI
DOVE LA RIFORMA NON E’ MAI ARRIVATA

Negli anni 1970 occorse la tragedia di Antonietta Bernardini – che si bruciava viva su un letto di contenzione a Pozzuoli – perche’ si rompesse la cortina del silenzio che circondava i “manicomi criminali”. La denuncia piu’ dura e documentata venne ancora una volta dall’interno: fu Alfredo Bonazzi prima con il libro “Ergastolo Azzurro” (Todariana, 1970) e poi con “Squalificati a vita” (Gribaudi, 1975) a raccontare cosa succedesse in riformatori, carceri e manicomi criminali. A Reggio Emilia, nella vecchia sede di via dei Martiri, Bonazzi rimase al letto per sessantotto giorni consecutivi: “C’erano persone con la museruola, uno era stato con le caviglie legate per diciotto anni”. Nel 1978 fu varata la legge 180: i manicomi criminali rimasero, mutando solo il loro nome in Ospedali pschiatrico giudiziario. Quello di Reggio Emilia era un convento medioevale, in pieno centro. E’ rimasto li’ fino al 1992. Fino a quando gli internati cominciarono a lanciare fogli di carta appallottolati. Qualche cittadino incuriosito li prese e lesse: “Ci picchiano e ci legano ai letti”. La denuncia fece scalpore e accelero’ il trasferimento. La nuova sede e’ nell’isolata via Settembrini. L’ospedale ospita centottanta persone (invece delle cento previste), ancor piu’ nei mesi estivi quando alcune Usl – soprattutto lombarde – dirottano qui i casi piu’ scomodi. Nell’ospedale ogni sezione ha un suggestivo nome di costellazione: Andromeda, Centauro, Pegaso, Fenice, Orione e Antares. Quest’ultima e’ l’unica priva di letti di contenzione. Basta poco per essere legati: un urlo, una porta sbattuta, uno sputo. Regnano abbandono e pratiche umilianti, nonostante l’impegno di alcuni volontari. Corridoi blindati e telecamere. Per smantellare questo lager occorre prevedere misure alternative alla detenzione psichiatrica. E’ quello che ha proposto il circolo Chico Mendes (051-229208) che punta sull’adozione di singoli internati da parte di associazioni e gruppi territoriali per definire insieme le politiche di ri-accoglienza. Un primo passo per iniziare lo smantellamento di questa istituzione totale che sopravvive a ogni riforma.

REGGIO EMILIA: O.P.G
Un uomo che vive legato, mani e piedi, a un letto da venti mesi. Un altro che e’ morto di polmonite, “pieno di lividi e imbottito di psicofarmaci”. Uno psichiatra che denuncia “l’uso improprio della contenzione”. E una direttrice sanitaria che afferma “di non potere seguire i casi diversamente, per mancanza di personale”. Tutto questo accade in un posto chiamato “ospedale psichiatrico giudiziario”. Ma i metodi usati ricordano il suo vecchio nome, quello abolito dalla legge 180: manicomio criminale. In Italia ci sono cinque prigioni di questo genere. Ecco le testimonianze da un lager dimenticato.

E’ legato a un letto di contenzione da venti mesi. Il 13 agosto del 1994, il suo caso arrivo’ per la prima – e unica – volta sui mass media che contano. In quell’occasione Valeria Calevro, direttrice dell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), dichiaro’: “Non abbiamo operatori e personale sufficiente per seguirlo diversamente”. Da allora nulla e’ mutato. Di quest’uomo si conosce il nome, ma qui lo chiameremo con le sole iniziali: G. P. Per quel rispetto che finora ben pochi gli hanno mostrato. La prima denuncia che lo riguarda venne, quasi di sfuggita, dal radicale-verde Carduccio Parizzi quando racconto’ ai giornali l’incredibile vicende di un altro uomo, Carmine Cascella, finito dentro l’ospedale – invece che in carcere – per ragioni misteriose e senza che i parenti ne fossero informati. I familiari di Cascella denunciarono di averlo trovato pieno di lividi e imbottito di psicofarmaci. Lui disse al fratello Luigi: “Mi picchiano”. La direttrice replico’: “Psicofarmaci, puo’ essere, ma botte non mi risulta”. La vicenda di Carmine Cascella si chiuse nel novembre 1994: i quotidiani locali riferirono che era morto di polmonite, appena uscito dal manicomio. “Forse sarebbe accaduto comunque, ma da quando era uscito da quel lager non era piu’ lui”, commento’ il fratello. Si spensero cosi’ i riflettori che, per un attimo, avevano gettato un po’ di luce su uno dei cinque “manicomi criminali” (questa la vecchia definizione) italiani. Cosi’ quasi tutti dimenticarono che, a margine della denuncia su Cascella, l’allora consigliere regionale Parizzi aveva raccontato di G.P. che da otto mesi viveva legato, mani e piedi, al letto d’una cella.

LETTO DI CONTENZIONE

Parizzi torno’ alla carica in dicembre, rivelando che per G.P. nulla era mutato, nonostante che la sua storia fosse stata portata all’attenzione dell’allora ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi e di Tiziana Maiolo, presidente della Commissione Giustizia alla Camera. Dunque, e’ l’inizio del 95, G.P. da un anno viveva inchiodato a un letto di contenzione. Il caso riesplose in aprile – ma solo sui giornali dell’Emilia Romagna – grazie allo psichiatra Giuseppe Cupello, consulente all’interno della struttura reggiana. “La contenzione viene usata con leggerezza, gli internati vengono legati mani e piedi con fascette di stoffa, per tempi prolungati e usi impropri”, dichiaro’ Cupello in una conferenza stampa, ricordando l’esistenza di una persona imprigionata in un letto da oltre quindici mesi, “ufficialmente per motivi medici, di fatto senza un perche’ davvero consistente. I tentativi di affrontare questo caso in altri termini sono stati molto scarsi, quasi nulli”. La denuncia di Cupello avviene all’indomani di un episodio significativo: “il 10 aprile mi e’ stato impedito l’ingresso nell’istituto con un provvedimento della Direzione sanitaria senza alcuna motivazione o contestazione”. Perche’ questo improvviso provvedimento? L’unica spiegazione – azzardo’ lo psichiatria estromesso – “e’ nelle mie proteste, nella mia perplessita’ a prendere misure coercitive. Trovano scandaloso che io discuta la terapia con i pazienti e che li sleghi dopo sola mezza giornata di contenzione”. Lui non lo dice espressamente ma forse ha pesato la sua richiesta di un’ispezione per l’uomo legato da quindici mesi.

DIMENTICATI DA TUTTI

Per qualche giorno – ma solo a livello regionale – le accuse di Cupello hanno fatto discutere. Poi e’ tornato il silenzio. Spezzato, solo per qualche ora, giorno 8 luglio quando, davanti all’Ospedale psichiatrico e’ svolta una manifestazione di protesta, promossa dal circolo Chico Mendes di Bologna, dalla Reggiana resistenza verde e dal Telefono Viola di Bologna (051-34200) che raccoglie le denunce “contro gli abusi della psichiatria”. Un centinaio di persone ha fronteggiato uno sproporzionato schieramento di polizia. Nella sua beata ingenuita’ un bimbo di tre anni si e’ avvicinato a un ufficiale e ha chiesto: “Signore, perche’ non mi aiuta a liberare le persone che tengono li’ dentro legate?”. La sua domanda e’ rimasta senza risposta. Qualche giorno fa, dall’interno di questo lager e’ uscita una nuova, terribile testimonianza. Ne pubblichiamo alcuni frammenti e in particolare quelli che raccontano di G.P. L’autore di questa ennesima denuncia e’ un “detenuto-paziente” del quale non faremo il nome. “Qui siamo dimenticati da tutti. Come si finisce in manicomio criminale? Non e’ vero che ci sono solo delinquenti pericolosi come tutti pensano. C’e’ chi e’ finito qui solo per reati tipo aver dormito una notte in una macchina non sua. Quell’uomo (G. P. ndr) e’ ancora legato. Lo fanno mangiare bendato, con una specie di passamontagna. Lo imboccano insomma. Vede solo l’infermiere che gli copre la faccia ma lui non ce l’ha con loro (con gli infermieri cioe’) ma solo con i carcerieri, le guardie. Qui e’ normale essere legati, pero’ nessuno cosi’ a lungo come lui. Siamo noi stessi a volte a chiedere di essere legati, per ventiquattro ore o per una notte: quando siamo molto nervosi e abbiamo paura di farci del male. Io soffro d’insonnia ma quando ero fuori dormivo bene e non commettevo quei gesti che chiamano autolesionisti”. L’ultimo passaggio di questa denuncia necessita di un chiarimento. Proprio i comportamenti autolesionisti vengono spesso citati dai seguaci della psichiatria tradizionale per giustificare la contenzione. Molti altri psichiatri pero’ rovesciano il ragionamento, spiegando che questi sono quasi sempre modi disperati per richiamare l’attenzione su di se’: in parole povere meglio essere considerati pericolosi che nullita’, fantasmi. Di persone legate da anni purtroppo in Italia se ne trovarono a centinaia, quando nel 1978 la legge 180 entro’ in vigore. Si puo’ immaginare le difficolta’ di chi voleva liberare questi sequestrati, carichi di rabbia, o di irrefrenabili paure, per essere stati trattati in modi cosi’ disumani. Eppure a Trieste, ad Arezzo, a Imola, insomma la’ dove si e’ voluto lavorare bene – si sa che in altri luoghi la legge 180 non e’ ancora arrivata o fu solo un tragico “scaricabarile” di responsabilita’ – anche gli internati definiti “ingestibili”, i “contenuti a vita”, sono stati inseriti positivamente in progetti di riabilitazione e di risocializzazione. E’ certamente possibile studiare un progetto per sciogliere le catene che da venti mesi imprigionano G.P., tanto piu’ che la stessa direttrice ammette che la causa principale di questo assurdo sequestro di persona e’ la mancanza di personale. E certamente si puo’ e si deve ridiscutere l’utilita’ di questi luoghi che non sono ne’ carceri ne’ ospedali psichiatrici ma riescono a sommare il peggio di queste due istituzioni. Negli ultimi trenta anni in Italia sussulti di civilta’ – con grande fatica, spesso in un’altalena di successi e passi indietro – hanno comunque scosso prigioni e manicomi. I cinque Ospedali psichiatrici giudiziari invece resistono, immutati: istituzione totale, pozzo nero, lebbrosario dove finiscono persone private d’ogni diritto. Fino a quando?